“Gianna,
figlia mia adorata,
[…]
Sarò fucilato all'alba per un ideale, per una fede che tu, mia
figlia, un giorno capirai appieno”
Perché
ha ancora senso per noi giovani, oggi, commemorare la Resistenza?
Oggi
ricordiamo innanzitutto la capacità di una generazione di diventare
protagonista del proprio presente, di darsi una coscienza politica,
di assumersi le proprie responsabilità.
È
difficile immaginare, per noi nati negli anni Ottanta o negli anni
Novanta, cosa significa nascere sotto una dittatura, crescere nel
ventennio fascista, vivere il logoramento di una guerra ingiusta –
quella che il fascismo combatte a fianco del nazismo – e poi il
doloroso tempo di guerra di un paese spezzato in due, diviso tra
occupazione e liberazione, lacerato dalla scia di sangue che i
tedeschi, affiancati dal secondo fascismo, lasciano alle loro spalle.
Rastrellamenti e bandi di leva, stragi, deportazioni. Questo è il
contesto nel quale opera la Resistenza, questa è la “guerra ai
civili” del nazifascismo.
In
questo scenario un
atteggiamento ha prevalso: quello dell'attendismo – come si
diceva una volta – con le sue mille sfumature. Con pochi punti di
riferimento, la maggior parte degli italiani – seguendo l'esempio
di molti dei loro capi all'8 settembre, quando Badoglio e il re
lasciano le Forze Armate di fatto senza ordini – semplicemente
sceglie di non scegliere. Tira a campare, come facciamo spesso tutti
quanti, in fondo, cerca semplicemente di sopravvivere a una guerra
che prima o poi – capita sempre – finirà.
Non
sono molti quelli che invece scelgono di combattere, nella maggior
parte giovani o giovanissimi, affiancati e guidati da un'altra
minoranza di uomini e donne che non avevano chinato la testa nel
ventennio mussoliniano, scegliendo il pericolo della clandestinità e
diverse altre forme di lotta per opporsi al regime. Sono pochi quelli
che scelgono di imparare a disubbidire, a ragionare con la propria
testa, a immaginare un futuro migliore per il proprio paese, e a
lottare per ottenerlo. E sulle nostre montagne e nelle nostre città
imparano cos'è la politica, si abituano a coltivare il pensiero
critico, soffocato da vent'anni di regime. Si confrontano con i
vecchi antifascisti, scolpiti nella fede incrollabile nei loro
ideali. Questo virtuoso incontro tra generazioni ci ha regalato una
lotta che è riuscita a liberare, nei giorni dell'Insurrezione –
nei giorni intorno al 25 aprile – le grandi città del Nord Italia,
tra cui la nostra Torino.
E
proprio a Torino, a pochi metri da
qui, davanti e dentro il Duomo, il 31 marzo del 1944 sono
stati arrestati la maggior parte dei componenti del Comitato militare
regionale piemontese, tra cui Paolo Braccini, del quale avete sentito
le ultime parole alla figlia Gianna. Nel giro di cinque giorni si è
consumata una tragedia, è stato imbastito dalla Repubblica di Salò
un vero e proprio processo alla Resistenza, che ha portato alla
fucilazione di Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri,
Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Errico Giachino, Massimo Montano,
Giuseppe Perotti. Uomini di diversa estrazione sociale, di diverse
generazioni, di diverse idee politiche, che come tanti altri
protagonisti di quei “venti mesi” avevano fatto delle loro
diversità un'arma in più, sacrificando ciascuno il proprio futuro
per un'idea comune di Italia che un anno dopo vincerà, un impianto
di valori condivisi contagiosi, che si contrappongono alla mai sazia
brutalità nazifascista: le fila della Resistenza si ingrossano
settimana dopo settimana, mese dopo mese, e altri italiani
partecipano, non solo i combattenti, alla liberazione dal proprio
paese dall'occupante e alla riconquista della libertà. “Viva
l'Italia libera!”, sono le ultime parole degli otto condannati a
morte. Volevano un'Italia giusta, plurale, libera.
Il
paese sorto dalla Resistenza è, prima ancora che una conquista, un
programma – così diceva Calamandrei della Costituzione. Un
programma sorto dallo slancio ideale di questi ragazzi del secolo
scorso: alcuni hanno avuto la fortuna di diventare adulti, poi
anziani, altri no. E noi siamo qua a ringraziare chi è ancora con
noi, i nostri nonni che hanno avuto il coraggio di rischiare la
propria vita per i loro ideali e anche chi nonno non è mai
diventato. Franco Balbis aveva due anni in più di me quando ha
scritto, nella sua ultima
lettera al padre: “Babbo mio caro, non avrei mai creduto che fosse
così facile morire”.
Ma
siamo qua soprattutto perché – se ancora crediamo che abbia un
senso – abbiamo il dovere di dare linfa vitale a questo programma
scritto nella nostra Costituzione, dobbiamo difenderlo e rinnovarlo,
farlo nostro. In questo nostro presente che si nutre di precarietà
vogliamo ritrovare quel protagonismo che ha saputo regalarci un paese
libero; oggi che la politica sembra e spesso è così lontana dai
cittadini e dalle esigenze del nostro paese vogliamo reinventare una
coesione sociale e politica, un mosaico di valori condivisi da
difendere, nei quali credere, per i quali – quando necessario –
lottare.
Viva
l'Italia libera.
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