venerdì 30 maggio 2008

La deriva del razzismo

Siamo persone - storici, giuristi, antropologi, sociologi e filosofi - che da tempo si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni.
Le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri pogrom, e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell'Europa, essa è stata, tra 800 e 900, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dalla strumentalizzazione politica degli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall'incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità, nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la gravità di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa. Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell'immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell'informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio le fondamenta stesse della convivenza civile, come già accadde nel secolo scorso - e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità che quell'atroce passato tornasse.
Marco Aime, Etienne Balibar, Rita Bernardini, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello, Angelo d'Orsi, Giuseppe Faso, Mercedes Frias, Gianluca Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario, Patrizio Gonnella, Gianfranco Laccone, Maria Immacolata Macioti, Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Filippo Miraglia, Giuseppe Mosconi, Grazia Naletto, Michele Nani, Salvatore Palidda, Marco Perduca, Giovanni Pizza, Pier Paolo Poggio, Carlo Postiglione, Enrico Pugliese, Anna Maria Rivera, Rossella Ropa, Emilio Santoro, Katia Scannavini, Renate Siebert, Gianfranco Spadaccia, Elena Spinelli, Ciro Tarantino, Giacomo Todeschini, Nicola Tranfaglia, Alessandro Triulzi, Fulvio Vassallo Paleologo, Barbara Valmorin, Danilo Zolo.
Per adesioni: razzismodimassa@gmail.com

martedì 27 maggio 2008

Una decrescita serena?

Può una società stretta tra spreco iperconsumista e perdita di democrazia affrontare crisi ecologica, esaurimento delle risorse, ineguaglianza e ingiustizia? Quali domande farci, quali risposte tentare?
INCONTRO CON SERGE LATOUCHE, MARCO REVELLI E LUCA MERCALLI
29 maggio 2008
ore 21
Mercato dei contadini - Porta Palazzo
Piazza della Repubblica angolo via Fiocchetto - TORINO
info 0114436250

sabato 24 maggio 2008

Mai '08

Quando le SS sono venute ad arrestare i sindacalisti,
non ho protestato perchè non ero un sindacalista.

Quando sono venute ad arrestare i Rom
non ho protestato perchè non ero un Rom.

Quando sono venute ad arrestare gli Ebrei
non ho protestato perchè non ero un Ebreo.

Quando alla fine sono venute ad arrestare me
non c'era più nessuno a protestare.

Marlin Niemnoeller

sabato 10 maggio 2008

Aspettando la democrazia

“Only a crisis,
actual or perceived,
produces real change”
(Milton Friedman)




Il ciclone tropicale Nargis sta devastando la Birmania, oops, il Myanmar (scusate, generalissimi).
Decine di migliaia di vittime, forse centomila, un milione di homeless secondo l’Onu.

3 milioni di dollari americani sono sull’attenti, e gli altri paesi in coda. La “comunità internazionale” scalpita: ha bisogno di aiutare, non può assistere inerme a un disastro di queste proporzioni. E la giunta militare ancora non apre le sue frontiere. Il regime dichiara di volere soltanto aiuti materiali, che sono accettati a patto che i generali stessi gestiscano l’emergenza. Attraverso il filtro governativo passano praticamente solo le scorte di viveri del Pam (Programma alimentare mondiale), distribuiti dai militari che ancora non hanno disertato per rintracciare le proprie famiglie.
L’ipotesi di ricorrere all’“ingerenza umanitaria” (proposta del francese Kouchner) è ancora esclusa, per adesso.

Per quale motivo la giunta dovrebbe rifiutare gli aiuti?

Nessuno si preoccupa di spiegarcelo. Il referendum-farsa che nonostante tutto si sta svolgendo – rinviato solo per le zone di crisi – è additato da tutti come il “punto debole” della dittatura, e la ragione per la quale i visti non vengono concessi. Certo, se la giunta desse il via libera agli aiuti, gli osservatori internazionali vedrebbero il ridicolo svolgimento del referendum: nessuno spazio mediatico alla campagna per il “NO”, obbligo di riportare le proprie generalità sulla scheda, e via dicendo. E allora? Non si sapeva già? Il regime birmano è sanguinario, oppressivo e corrotto. Abbiamo già dimenticato la repressione autunnale? Eravamo tutti monaci birmani all’epoca, tutti vestiti di rosso a ottobre, ma adesso siamo tutti tibetani. La moda non si ferma mai, è in continua evoluzione.
Crediamo davvero che la giunta si vergogni del suo pugno dittatoriale, e arrossisca al pensiero di una sculacciata occidentale? Le dichiarazioni di Laura Bush di 4 giorni fa: “gli aiuti ve li mandiamo ma alle nostre condizioni”, sono sembrate più una gaffe che altro, e hanno scioccato anche personalità dell’opposizione birmana in esilio, come Aung Naing Oo, analista politico, che ha ribattuto: “se gli Stati Uniti vogliono davvero aiutare, lo devono fare senza richieste politiche”. Qualcuno dovrebbe spiegare alla first lady americana, che non sono di natura politica gli interessi in campo. Non è così che funziona.

Dimentichiamo per un momento la malleabilissima “opinione pubblica” – noi stessi – e chiediamoci: da quando in qua i governi occidentali vanno a lavare i panni sporchi degli altri? Le elezioni-farsa russe sono forse state un problema? Solo per fare un eclatante esempio recente. Non mi risulta che ci sia petrolio in Myanmar, eppure c’è tantissimo riso. Ma, nonostante questo, non posso credere che l’Asse del Bene abbia creato il ciclone Nargis per poter razziare il riso birmano. Sarebbe plausibile, benché difficile da credere, ma non sono così complottista.

Forse qualcuno me lo può spiegare meglio, ma perché mai una banda di criminali al governo non dovrebbe accettare un massiccio sistema di aiuti, ben strutturato e funzionale, che arriva, risolve – o attenua – la crisi, cura i feriti, sfama gli affamati, alloggia gli homeless, riversa milioni di dollari che altro non sono che briciole o sms occidentali, e poi se ne va?

Forse perché poi non se ne va.

Mis-à-part la dibattutissima questione della reale natura della beneficenza – quanti centesimi su un euro donato arrivano a destinazione, se arrivano, etc. – bisognerebbe forse imparare qualcosa dal recente passato. “Dal letame nascono i fiori”, cantava De Andrè, e lo sanno molto bene le multinazionali del turismo, e gli squali globali, predicatori del neoliberismo “puro”. Liberare i mercati è l’obbiettivo numero uno. Chiedetelo alle decine di migliaia di senzatetto che ancora popolano lo Sri Lanka, mentre dove c’erano le loro capanne ora splendono magnifici hotel con piscina.

Non credo che la giunta militare birmana stia facendo gli interessi della sua popolazione. Se così fosse, la avrebbe innanzitutto avvertita della calamità in arrivo, cosa che ha accuratamente evitato di fare. Credo che abbia semplicemente intenzione di continuare a fare i suoi sporchi affari, senza dover dividere la torta con gli squali bianchi. E, tra parentesi, nella maggior parte dei casi “dividere la torta” vuol dire farsi corrompere o poco più, mentre la torta birmana è ancora tutta loro.

Credo piuttosto che questo silenzio sul perchè la giunta non permette l’ingresso agli aiuti sia imbarazzante. C’è qualcuno che crede davvero che le ragioni siano di natura politica?

"In Iraq, Sri Lanka and New Orleans, the process deceptively called "reconstruction" began with finishing the job of the original disaster by erasing what was left of the public sphere.
When I began this research into the intersection between super-profits and mega-disasters, I thought I was witnessing a fundamental change in the way the drive to "liberate" markets was advancing around the world." (Naomi Klein)

Presto Nargis sarà solo un triste ricordo, filmati d’archivio su youtube. Ma avremo i low cost per il Myanmar, oops, la Birmania.

The Shock Doctrine by Alfonso Cuarón and Naomi Klein

giovedì 1 maggio 2008

Edward Said talks about Israel

L'Asse del Bene

Il Tg1 è riuscito a superare sé stesso. Se perdo il mio tempo a riferirvi una “notizia” apparsa oggi tra il solito collage lobotomizzante vuol dire che forse anche il fondo è difficile da raggiungere. Immagino che si tratti dell’effetto monopolio: quel servo di Gianni Riotta si sta già ridimensionando (c’era qualcosa da ridimensionare?) e autocensurando, limando il suo inutile impasto di cani salvati da donne cieche, vecchie nullatenenti con un tesoro nascosto, surfisti sbranati da squali, il giallo della settimana, limandolo un po’ secondo i desideri del nuovo vecchio capo. Oh, chi si rivede, il Cavaliere. Ma non credo che l’intollerabile censura, figlia della “versione ufficiale” – leggi “la balla ufficiale” – che tappa la bocca a chi non sta dalla nostra parte sia anch’essa monopolio del pur potentissimo – che non si offenda – Silvio.

Raccontando delle celebrazioni dell’Olocausto (si direbbe che siano settimanali a volte) in Israele, l’inviato si è concesso una breve “digressione” di attualità. Dal cappello del mago-giornalista è spuntata l’Iran, e i rischi che Israele corre adesso, accerchiato dal Male: “Secondo un sondaggio, molti israeliani, per la maggior parte giovani, temono un secondo Olocausto”. Ma davvero? Che sondaggio? E soprattutto, Olocausto di chi?

Bisogna ammettere che la cosiddetta Asse del Male – quella mediorientale, da non confondere con quella sudamericana… – nei mesi scorsi non si è trattenuta. Minacce a Israele, sono arrivate da Al Quaeda, Hezbollah e dallo stesso Ahmadinejad.
Israele è nostro alleato nella guerra contro il Terrore, questa ne è l’ennesima dimostrazione. Il Terrore terrorizza Israele. Il Terrore, il Terrore. Giorno dopo giorno, bombardati da informazione faziosa e disonesta, sporche e striscianti menzogne incominciano a disegnarci un mondo più facile da capire, dove il terrorista è l’arabo. Sunniti, sciiti, dittatori, governi democraticamente eletti, troppo complicato da capire. Lasciate fare a loro. Hamas, legittimamente al potere, non prende parte ai negoziati. È come se nei prossimi anni si continuasse a dialogare con il governo Prodi. Ah, l’esportazione della democrazia. Hamas è inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche, and that’s it. Se non ci piaci, non esisti.
Eppure dall’inizio della seconda Intifada il numero delle vittime palestinesi è 5 volte superiore a quello delle vittime israeliane (fonte Afp), nella Striscia di Gaza il rispetto dei diritti umani è un’utopia, la metodica barbarie israeliana è intollerabile, e lo è da sempre. Il neologismo di Baruch Kimmerling rende l’idea: “con il termine politicidio intendo un processo che abbia, come fine ultimo, la dissoluzione del popolo palestinese in quanto legittima entità sul piano sociale, politico ed economico”. Sul piano sociale ed economico è sufficiente l’occupazione israeliana. Per quanto riguarda il piano politico, beh, lì i paesi occidentali corrono in soccorso di una politica intollerabile, delegittimando e demonizzando un partito democraticamente eletto come Hamas.
Eppure l’ex presidente americano Carter – non certo terrorista o comunista – in questi giorni non poteva essere più chiaro: bisogna parlare con Hamas. Il nostro ministro degli Esteri d’Alema lo ripete da anni. Per Carter, inoltre, senza il ritiro di Israele si prospettano solo due scenari. Il primo, rifiutato dalla stragrande maggioranza della popolazione ebraica, implicherebbe l'unificazione dell'intera Palestina in un solo stato. Il secondo scenario vede la cristallizzazione «di un sistema di apartheid con due popoli sulla stessa terra ma completamente separati uno dall'altro, con gli israeliani completamente dominanti che reprimono la violenza (che ne scaturisce, ndr) privando i palestinesi dei loro elementari diritti umani. Questa è la politica perseguita attualmente».

Un mese e mezzo fa il viceministro della Difesa israeliano ha minacciato i palestinesi di una “shoah” peggiore di quella che già conoscono, nel caso in cui fossero continuati i lanci di razzi qassam. La “smentita” è stata rapida, bien sûr: “shoah” significa non solo “olocausto” ma anche “catastrofe”. Penso che l’errata corrige si commenti da sola.

I nostri mezzi di comunicazione partecipano in massa a questa continua demonizzazione di tutto ciò che si autodetermina nel mondo arabo. L’ingerenza è la prassi, e a furia di farci bombardare finiamo per crederci. I cattivi sono gli altri. Come ha notato Travaglio, se “l’eroe Mangano” fosse spuntato in campagna elettorale del ’94, Berlusconi sarebbe stato massacrato al voto. 14 anni di bombardamenti mediatici sono capaci di smuovere un paese, di fargli “cambiare idea” anche sulla mafia.

E infatti di anni ne sono bastati 6 e mezzo. Iraq, Afghanistan, Iran, Palestina.
I massacri metodici di civili sono tollerati dall’opinione pubblica in nome della guerra al Terrore. Tanto questi civili sono arabi, ci fanno paura, sono diversi, sono cattivi. Se poi le bombe inseguono i terroristi in Somalia, massacrando anche lì, neanche ce ne accorgiamo. E poi, anche ce ne accorgessimo, nel Corno d’Africa non sono musulmani anche loro?

I buoni e i cattivi. “It’s very simple. If they do it is terrorism, if we do it is counter-terrorism. That’s a historical universal.” (Noam Chomsky)

You talk about tolerance and peace at a time when your soldiers perpetrate murder even against the weak and oppressed in our countries”. Alzi la mano chi sa chi ha pronunciato questa frase.

Forse bisognerebbe spiegare a quei tanti giovani israeliani che temono un secondo Olocausto – sempre che esistano – che ad azione segue reazione. La pace non si costruisce con le menzogne, egregio signor Riotta. Le uniche speranze di pace nei Territori Occupati sembrano essere legate a una continua azione di bloggers – israeliani e palestinesi – che si tengono in contatto, ignorando censure e repressioni. Le vere informazioni ormai sono alla portata di tutti. Difficili da reperire, sommerse da spazzatura. Ma un altro mondo è già disponibile, in rete.

Spegnete la televisione. Accendete il computer.

À propos, la frase è di Bin Laden.

Noam Chomsky on terrorism